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Il mondo dorato (dato) di Linkedin

Il mondo dorato (dato) di Linkedin

05 Novembre 2019 Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
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Frequentando Linkedin a volte si ha l’impressione di stare dentro una bolla felicitaria isolata dal resto del mondo. Una bolla abitata da tanti pesci, in ammollo ma felici, con maggiori possibilità e forse più fortunati. Pesci comunque rinchiusi dentro un acquario mondo, in attesa di essere imboccati, prima di essere presi all’amo, ma anche pesci predatori sempre pronti a trarre vantaggio degli spazi virtuali e popolati nei quali agiscono.

L’esistenza dell’acquario implica quella di un proprietario e manutentore. Un gestore intelligente che fa della trasparenza, dello storytelling e della complicità dell’utente le basi dei suoi guadagni, quasi sempre condivisi con inserzionisti, erogatori di corsi, e coorti di afecionados della piattaforma. La percezione è di stare su Facebook, ma dentro un acquario elitario, abitato da pesci di categoria superiore. Pur sempre pesci!

“Il mondo digitale sta prendendo il sopravvento, ridefinendo qualsiasi cosa, prima che ci sia offerta la possibilità di riflettere e decidere” – Shoshana Zuboff 

Mondo dorato ma non El Dorado, Linkedin non è un luogo leggendario nel quale andare a cercare oro e pietre preziose (bisogna accontentarsi di MiPiace e cuoricini vari), ricchezze nascoste e abbondanti (quanti trovano un posto di lavoro con Linkedin?), capaci di appagare bisogni, appetiti e desideri vari (la mia startup! il mio tessoro!). 

Come per altre piattaforme di social networking, anche per Linkedin (Abitare Linkedin nel 2019) è difficile dimostrare quali reali benefici o vantaggi sia in grado di procurare, facile al contrario percepire l’inganno su cui si basa il suo modello di business. 

Ma in fondo non è la vita stessa una finzione, un grande inganno? 

Un inganno non sempre percepito da chi vive dentro Linkedin che, parafrasando il titolo del libro di Cosimo Accoto, lo vive come 'dato', come realtà data ed entità chiusa. Una realtà che si espande e si autoalimenta grazie ai dati e alle informazioni che chi la frequenta produce e che le danno senso.

L’inganno nella finzione 

L’inganno è tutto celato dietro la voracità di dati che giustifica una piattaforma aperta a tutti, meglio se paganti, purché siano attivi nel condividere informazioni, conoscenze, narrazioni e attività, profili lavorativi, eventi, corsi, prodotti, libri e contatti.  

“Some people, think LinkedIn is Facebook.” - “The risk on Facebook is becoming too toxic, the risk on LinkedIn is becoming too cheesy.” - “It’s much harder to be a dissident on LinkedIn."

L’inganno sembra essere condiviso da molti utenti che frequentano il social network, sicuramente dagli utenti presenzialisti che lo utilizzano come strumento spammer e da una miriade di entità che usano Linkedin principalmente per promuovere e vendere i loro servizi ma anche corsi, prodotti, immagini, soprattutto sé stessi. 

Ingannevole è la narrazione di Microsoft, proprietaria della piattaforma Linkedin, e una delle aziende tecnologiche che contribuisce a quello che Shoshana Zuboff ha definito  Il capitalismo della sorveglianza, un sistema costruito sull’offerta gratuita di servizi che miliardi di persone felicemente utilizzano regalando in questo modo una visibilità completa e trasparente sulle loro vite. Ne deriva un monitoraggio persistente e continuo,  un condizionamento dei comportamenti, spesso fatto senza alcun esplicito consenso da parte dell’utente. 

Il mondo dorato di Linkedin Italiano è caratterizzato dalla presenza (più o meno…*) di 120Mila persone che si dichiarano CEO, 54Mila CIO, 43Mila coach, 110Mila HR e più di un milione impegnati in attività marketing. Ci sono anche quasi 2000 rider ma sono probabilmente universitari obbligati dalle loro origini sociali a procurarsi un reddito qualsiasi pur di continuare a studiare. Una fotografia che racconta molto bene le categorie di persone che abitano Linkedin ma ne suggerisce anche un’altra. Quella delle moltitudini di individui che non hanno tempo di stare connessi a Linkedin perché troppo impegnati nella ricerca di qualsiasi opportunità utile a raggranellare quello che serve loro per vivere in modo decente, per sé e per le persone con cui vivono. Poco attivi risultano ad esempio operai, artigiani, rappresentanti e figuranti della GIG economy e precari vari. Con l’eccezione della miriade di persone (profili) impegnate in funzioni marketing, HR, di comunicazione e in attività collegate all’editoria. Quest’ultima una realtà sempre più in crisi, caratterizzata da scarsi guadagni e tanti lavoretti, poche reali opportunità e tanta precarietà (tutti free-lance a partita IVA).

Eppur si muove!

Anche se per alcuni la piattaforma di networking migliore e più potente è oggi Twitter (in particolare per l'efficacia dei suoi memi), la rete di Linkedin sembra comunque funzionare. Per alcuni, numericamente pochi, è anche fonte di grande visibilità, guadagni e nuove opportunità (corsi per apprendere come usare Linkedin, corsi di coaching per diventare coach, ecc. ecc.). 

Linkedin funziona come strumento di networking e di comunicazione, di partnership e di relazione. Funziona come piattaforma di storytelling e di condivisione, di marketing e di relazione. E’ però funzionale anche ai trend del momento che (senza generalizzare) vedono prevalere, principalmente nel mondo digitale e online ma non solo:

  • il presente sul tempo,
  • la velocità sulla lentezza (Darsi tempo, non volere tutto e subito sembra diventato impossibile.),
  • la comunicazione sulle capacità (Comunicare è relazione),
  • la furbizia sulla professionalità,
  • la superficialità sull’approfondimento (Tecnoconsapevolezza e neo-umanesimo digitale),
  • l’esecuzione sul pensiero,
  • il conformismo sul pensiero critico e cinico,
  • l’approccio consumistico su quello della reciprocità,
  • la lettura veloce sulla comprensione e la riflessione (Leggere che fatica! Leggere che piacere!),
  • la reazione quasi automatizzata a uno stimolo binario sulla libertà di scelta,
  • la percezione sull’analisi,
  • l’affidarsi al mezzo piuttosto che alla propria capacità intuitiva,
  • la verità (anche fake) sul dubbio,
  • l’omologazione del pensiero sulla visione,
  • l’ascolto sul chiacchierare,
  • la quantità sulla qualità,
  • l’immagine sulla scrittura,
  • l’approccio riduzionista su quello sistemico,
  • lo storytelling sempre uguale sulla fantasia e l’immaginazione narrativa,
  • l’emotività sulla razionalità,
  • il cinguettio sulla comunicazione pragmatica e relazionale. 

L’arte di porsi delle domande 

Di fronte allo scorrere dei tanti post che riempiono la home page di Linkedin è impossibile non farsi delle domande. 

Una richiama il ruolo che la tecnologia ha assunto nel riformattare il nostro inconscio.  Secondo Umberto Galimberti i due inconsci della teoria freudiana, quello pulsionale legato alle esigenze della specie e quello super-egoico legato alle esigenze della società, sono affiancati da un inconscio tecnologico, calibrato sulle categorie dell’efficienza, della produttività, più attento a come si fanno le cose che alle persone. Un inconscio efficiente che ci sta trasformando in tanti robot automatizzati e teleguidati dall’esterno. 

La forza dell’inconscio tecnologico è tale da modificare i nostri comportamenti, le nostre relazioni e conversazioni. Nasce dal fatto che, siccome tutti fanno così, si deve fare così. Se non ci si adegua e non si fa così si è tagliati fuori. Sullo stesso tema, su Linkedin ha scritto anche il professor Piero Dominici che sottolinea come si sia sempre più concentrati sul ‘come si fa’ e sempre meno o quasi per niente sul ‘perché lo si fa’ e sulle domande. Un problema che secondo Dominici nega la costruzione di un pensiero diverso (“altro”) e innovazione vera. Non solo tecnologica ma culturale, sociale, mediale, democratica, non di facciata, per tutti e non solo per pochi. Sull’importanza di porsi delle domande finalizzate alla maggiore consapevolezza ho scritto anche io con un libro dal titolo Tecnoconsapevolezza e libertà di scelta

La domanda che nasce è su quanto siamo (tecno)consapevoli di come e quanto la tecnologia stia cambiando il nostro Sé, la nostra mente e i nostri comportamenti, ma soprattutto dell’egemonia culturale che essa sta esercitando sul mondo e sulla realtà dettandone le interpretazioni, le narrazioni e le visioni. 

L’adesione acritica, complice e benevolente nei confronti dei modelli imposti dalla volontà di potenza della tecnologia e da chi la controlla impedisce di comprendere gli inganni e le trappole sottostanti, di acquisire quanto serve per elaborare un pensiero critico e per alimentare una maggiore consapevolezza. Ad esempio sul ruolo che la tecnologia ha assunto nella sorveglianza diffusa e continua finalizzata a monitorare e condizionare i comportamenti delle persone. 

L’altra domanda importante che tutti dovrebbero porsi è sul potere ingiuntivo delle piattaforme tecnologiche (terminologia usata dal filosofo francese Eric Sadin), delle loro logiche e dei loro algoritmi, sul loro sostituirsi nelle decisioni da prendere e sulla loro capacità di determinare i comportamenti.

 

Le nostre azioni sono costantemente osservate, monitorate e regolate, anche attraverso i tanti fedeli credenti (gli Occhi del Racconto dell’ancella di Margherita Atwood) che hanno fatto, delle piattaforme tecnologiche che frequentano, la loro chiesa (Gilead). Queste azioni devono essere coerenti con il “così fan tutti” e le regole imposte dalla piattaforma, dalle pratiche e dalle narrazioni che la caratterizzano (mai provato a criticare apertamente i post di alcuni cosiddetti influencer? avete osservato le reazioni dei loro follower?). Teoricamente si è liberi di poter agire come meglio si crede o di poter soddisfare i desideri personali, nella realtà si è subito tagliati fuori o si è relegati nel limbo di “color che son sospesi” (Dante). 

I comportamenti non sono vietati ma influenzati, interiorizzati e spesso non espressi. Tutto deve fluire in tempi rapidi, senza intoppi, critiche o decostruzioni varie. Chi prova a resistere alla fine si trova stanco e demoralizzato, dubita della propria individualità e finisce per staccare la spina, per adottare i comportamenti diffusi o per aderire alla chiesa e all’ideologia (fede) vincente del momento. Nella pratica il tutto si traduce nella rinuncia a un MiPiace (mai notato quanto esso assomigli a un sì incondizionato?) ma soprattutto a commentare e intervenire. 

A volte intervenire è anche reso complicato da coloro che, credendo di avere capito tutto, si ergono a diaconi e profeti della piattaforma, offrendo accudimento e supporto, affiancamento e mentoring, coaching e formazione (utile alla rieducazione e rigenerazione). Tanti personaggi in cerca di autore e di opportunità, capaci di influenzare, presenziare, trattenere l’attenzione e lo sguardo (Quanti post su Linkedin sono di qualità elevata ma non ricevono MiPiace o commenti? Quanti quelli abituali, quasi vampireschi, che richiamano MiPiace come carta moschicida?).   

La terza domanda è sulla sparizione della realtà. Linkedin è diventato uno strumento insostituibile per il mercato del lavoro ma non racconta necessariamente la realtà che lo caratterizza nella fase attuale di capitalismo della sorveglianza, neoliberista, globalizzato e tecnologizzato che ha prodotto precarietà, sparizione del lavoro e l’aumento esponenziale delle disuguaglianze. 

Abitando Linkedin si può avere l’impressione che il mercato del lavoro sia ricco e pieno di opportunità, la realtà fuori dalla piattaforma digitale si fa carico di ricordarci sempre il Grande Altro (concetto di Lacan e titolo di un libro di Slavoj Žižek) contro cui andiamo a sbattere, un incontro da cui nascono tante nevrosi e psicosi, ansie e infelicità del tempo corrente. Il filosofo sloveno invita a non dare retta alle grandi narrazioni («Tutte stronzate»), compresa quella tecnologica oggi prevalente che tende a suggerire cosa fare ma pretende anche di insegnarci di desiderare di farlo, a fare i conti con la realtà delle cose e con i grandi altri che in modo invisibile guidano la nostra vita. Al Grande Altro fa riferimento anche Shishana Zuboff nel suo fondamentale testo Il capitalismo della sorveglianza. Per l’autrice americana il Grande Altro è il potere “strumentalizzante che si manifesta nella forma di infrastruttura permanente, senziente, interconnessa, computerizzata, costruita su una visione antidemocratica della società e dei rapporti sociali che ne derivano”. 

La realtà sempre più registrata, documentata, sensorizzata, mobilitata (il riferimento è a Maurizio Ferraris) e tecnologizzata, sembra essere diventata trasparente e conosciuta, ma si scontra continuamente con la nostra percezione, sensibilità, ed esperienza. Le narrazioni correnti raccontano una realtà che può essere piegata ai desideri e alle esigenze personali, l’esperienza quotidiana si fa carico di dimostrare la loro infondatezza, sollevando dubbi e interrogativi che suggeriscono nuova consapevolezza e una visione del mondo meno felicitaria di come viene raccontata (tutta l’ideologia della Silicon Valley è improntata sulla felicità). 

Il TAO della (tecno)consapevolezza. 

Chi non trova la via della consapevolezza (del TAO? Visione olistica/sistemica?) finisce per rimanere vittima di miraggi, ologrammi del reale, anticipazione dei mondi virtuali che verranno, adozione passiva e complice dei modelli e delle visioni del futuro imposte da Google, Facebook, Amazon et similia. Rischia di vivere nell’illusione che la ricerca del “migliore dei mondi possibili” di panglossiana memoria sia l’unica strada possibile d percorrere. L’unica per la quale valga la pena adattare i nostri modi di pensare oltre che i nostri comportamenti, speranze e azioni. 

Vivendo nell’illusione si finisce per raccontarsi delle storie (Italia(ni) viv(a)i raccontandosi storie!). Cosa potrebbero fare di diverso i rider di Glovo, Uber e Deliveroo o i social media marketer che in Linkedin non riescono a trovare alcuna opportunità per uscire dalla loro precarietà esistenziale e lavorativa? Le storie che ci raccontiamo nel frattempo hanno una ricaduta psichica rilevante nel dare un senso alle cose e nel predisporci e convincerci, anche quando la verità a esse associata è palesemente falsa, a farci condizionare da esso. 

Il mondo e il mercato della precarietà andrebbero al contrario affrontati nella loro tragica attualità e realtà. Le relazioni che contano sono quelle complicate e precarie che lo caratterizzano, non quelle felicitarie sperimentate in Internet. Per comprendere la distanza tra realtà e narrazioni felicitarie è sufficiente decontestualizzare e decostruire le tante mitologie che si diffondono in Rete come quella del Job Hopping (saltare da un'azienda all'altra come se si scegliesse di farlo....).

La realtà del mercato del lavoro va contestualizzato nella sua difficoltà e specificità reale, non nella sua rappresentazione digitale e nelle sue narrazioni su piattaforme come Linkedin (nella realtà odierna è impossibile distinguere in modo netto tra reale e virtuale ma il Reale obbliga a un’attenzione maggiore).  I corsi che servono non sono quelli sull’uso di Linkedin e neppure quelli oggi erogati dai Navigator. Servono strumenti diversi e più efficaci per fare incontrare domanda e offerta ma soprattutto la capacità di rompere i modelli economici attuali per far emergere vera innovazione e nuove opportunità reali per i più giovani. 

La colpa non è della tecnologia 

Di tutto questo la tecnologia non è direttamente responsabile. La tecnologia non è più neutrale (forse non lo è stata mail) e non è neppure determinata dalle nostre abitudini nell’utilizzarne i prodotti ma è a supporto di modelli utilitaristici, schemi organizzativi, apparati attivi nel dare forma alle nuove realtà economiche e sociali del mondo e nel determinare il ruolo che nelle stesse può giocare il cittadino contemporaneo. 

La responsabilità di quanto sta succedendo non è della tecnologia, tanto meno delle piattaforme di social networking, ma della logica ad essa sottesa che, nelle mani di pochi proprietari delle grandi piattaforme tecnologiche, viene trasformata in ideologia, mercati e azione, usata per determinare nuovi modelli economici, relazionali, sociali e politici. In questo senso anche Linkedin è un potente mezzo piegato a fini economici, agli obiettivi e agli interessi di coloro che lo posseggono e lo fanno funzionare. 

Chi frequenta Linkedin (Abitare Linkedin nel 2019) può prenderlo e adottarlo così com’è, accettandone la visione condivisa dai più ma anche l’alienazione che ne deriva. In alternativa può metterne in discussione il modello. Lo può fare con pazienza dall’interno, adottando e suggerendo comportamenti diversi, pubblicando contributi e narrazioni di qualità che favoriscano la riflessione, l’analisi e il pensiero critico, dando forma a reti di contatti utili ad andare oltre il collegamento per favorire interazioni e relazioni, dotandosi di un linguaggio improntato alla gentilezza e alla pragmaticità, prestando infine maggiore attenzione ai problemi/bisogni reali delle persone con cui si entra in contatto (online non ci sono utenti, membri, profili ma persone). 

L’adozione di buone pratiche diverse è il solo modo per rompere i meccanismi della digitalizzazione del mondo corrente, improntata sulla volontà di potenza dei produttori di tecnologia e sui loro modelli di business. E’ un modo per cogliere i grandi mutamenti in atto e prepararsi a quelli disruptive in arrivo insieme all’affermarsi dell’intelligenza artificiale, non solo quella specializzata attuale ma generale (AGI) e dotata di superintelligenza (ASI). Infine è l’unico modo per mantenere la propria autonomia di giudizio, da cui può derivare la libertà di scelta, la pluralità di punti di vista e la (tecno)consapevolezza. 

*I dati sono stati ricavati con semplice ricerche del motore di ricerca interno di Linkedin. La loro inesattezza potrebbe essere dipesa dai filtri utilizzati. 

** Tutte le immagini sono scatti fotografici di un viaggio 2019 in Kamchatka

 

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