Tabulario /

Tu chiamala se vuoi flessibilità…ma per molti è una grande fregatura!

Tu chiamala se vuoi flessibilità…ma per molti è una grande fregatura!

22 Aprile 2016 Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
share
La parola flessibilità popola da almeno due decenni il vocabolario e il linguaggio dell’economia, del mondo del lavoro e dei media. Se ne parla solitamente per decantare i vantaggi della globalizzazione dell’economia neoliberista e per costruire narrazioni acritiche, se non manipolatorie, di realtà del lavoro piene di opportunità ma in realtà sempre più precarie e senza lavoro. Sparita la classe operaia e la sua capacità di riflettere criticamente sulla realtà per cambiarla, oggi la flessibilità colpisce la classe media e i lavoratori cognitivi (cognitariato), incapaci per il momento di elaborare adeguate strategie di resistenza e cambiamento.

Premessa

Chi è capitato per caso su questa pagina scoprendo di essere all’interno di un ambiente in cui si parla di tecnologia potrebbe meravigliarsi di questo testo. Procedendo con la lettura scoprirà invece quanto stretta sia la connessione tra il dominio attuale dell’economia e la sua capacità nel cambiare la realtà del mondo del lavoro e la vita individuale delle persone, con la tecnologia e la sua capacità di riprogrammazione linguistica, mentale e cognitiva degli individui, con l’automazione e la eliminazione di posti di lavoro e con la produzione di nuove forme di alienazione che non aiutano alla comprensione della realtà e tantomeno a cercare di cambiarla.

Vittime della Rete onnicomprensiva, pervasiva e sempre attiva, attaccati a dispositivi mobili sempre connessi e abilissimi nel rubare il nostro tempo e le nostre risorse (non solo mentali), persi nel flusso continuo di informazioni e di conversazioni, abbiamo perso la capacità di relazionarci criticamente con il mondo e forse anche la nostra stessa anima. Tecnologia, startup, autoimpresa sono diventate analogie di flessibilità e opportunità ma in realtà anche di una grande trappola dalla quale da soli sembra essere diventato impossibile uscirne.

Riferimenti e spunti di lettura

Il testo presente deriva dalla lettura causale e quasi contemporanea di alcuni testi come:

  • L’ultimo libro di Berardi Bifo, L’anima al lavoro – Alienazione, estraneità, autonomia, un testo fuori del coro che propone alcune riflessioni interessanti sul mondo del lavoro, diventato sempre più automatizzato e cognitivo e sulle forme di alienazione e sugli effetti patogeni che derivano da nuove forme di sfruttamento più subdole e pericolose perché esercitate sul linguaggio, la mente, la psiche e gli affetti delle persone.
  • Un articolo di Richard Sennet sul giornale la Repubblica del 21 aprile 2016 dal titolo Continuiamo a chiamarla flessibilità (ha suggerito il titolo anche di questo articolo) nel quale parla della classe media rimasta senza lavoro e di flessibilità come di una nuova forma di repressione, un modo per ridimensionare il lavoratore attraverso la flessibilità. L’articolo fa riferimento al libro sul tema scritto anni fa da Sennet dal titolo L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale (pubblicato nel 1998 e in Italia da Feltrinelli nel 1999).
  • Un articolo (When It Comes to Age Bias, Tech Companies Don’t Even Bother to Lie) pubblicato su Pulse di Linkedin da Dan Lyons autore di Disrupted – My disadventure in the startup bubble. L’articolo tratta delle discriminazioni di razza e di età che stanno sconvolgendo il mercato americano. Prova ne è che l’articolo è stato visualizzato/letto da quasi 800.000 mila persone che hanno indicato con quasi 8000 Like il loro apprezzamento e hanno prodotto quasi 2500 commenti che suggerisco a tutti coloro che sono coinvolti in qualche forma di flessibilità (precarietà, nuove forme di alienazione) di andare a spulciare e a leggere.

 

Temi di fondo

A unire i tre testi tra loro c’è l’attenzione dei loro autori alla storia e alla evoluzione del sistema capitalistico in cui ci troviamo a vivere e la volontà di cercare di comprendere il presente facendo i conti con il passato e usandolo per interpretare criticamente il presente. Il tutto senza lasciarsi catturare dalla retorica diffusa sui tempi tecnologici, senza spazio e senza tempo dell’economia digitale e globalizzata dominante.

L’attenzione al passato permette di riprendere le teorie di autori come Adam Smith e Karl Marx con le loro riflessioni sulla produzione di valore e sull’importanza del tempo dedicato al lavoro e la sua routine (operazioni ripetitive, oggi sempre più svolte da macchine intelligenti e robot) nel condizionare pesantemente la condizione umana del lavoratore, ieri proletariato e operaio, oggi cognitariato e lavoratore cognitivo. Un condizionamento con effetti pesanti sulla percezione del sé e sulle relazioni umane del lavoratore e tale da produrre, secondo Marx, vere e proprie forme di alienazione.

Le analisi sono centrate sulle strutture di potere, sulla loro capacità di dominio e di imposizione di nuove regole e di nuovi schemi cognitivi con cui guardare il mondo ma anche di manipolazione cognitiva della realtà. In questo contesto la parola libertà è al centro di ogni tipo di manipolazione. Alla parola libertà fanno riferimento sia il termine di neoliberalismo sia di flessibilità con l’obiettivo di decantarne le opportunità e i vantaggi. La realtà raccontata e alimentata co narrazione dalla maggioranza dei media ufficiali è però ben lontana dalla realtà fattuale. La flessibilità ad esempio, sostiene Sennet “non ha incrementato la libertà, ma al contrario ha prodotto nuove strutture di potere e di controllo, come nel caso delle forme di telelavoro o di lavoro a distanza che hanno moltiplicato gli strumenti per controllare l’attività del lavoratore (mail, telefono, reti informatiche), nel timore che la distanza fisica da un ufficio o da un superiore lo trasformasse in uno sfaccendato.” La differenza rispetto al passato è il passaggio dal cronometro delle fabbriche Tayloriste allo schermo del computer o dello smartphone del posto di lavoro intellettaule di oggi.

La libertà del sistema neoliberista basata sulla flessibilità del lavoro sta portando a profonde trasformazioni aziendali e istituzionali dove le libertà in realtà vengono meno perché il potere è sempre più concentrato nelle mani di pochi e ci sono sempre meno possibilità per l’uomo comune e il cittadino di far sentire la sua voce e dare una direzione diversa ai cambiamenti in atto. Il passaggio da organizzazioni gerarchiche e piramidali a organizzazioni orizzontali e celebrate per la loro componente collaborativa va di pari passo con le nuove infrastrutture tecnologiche, complesse e reticolari. Ciò che ne deriva non è però necessariamente una maggiore efficienza e produttività ma lavoratori in esubero (oggi anche quelli cognitivi come molti bancari sostituiti da macchine sempre più intelligenti), delocalizzazioni, precarizzazione del rapporto di lavoro, salari più bassi e continue ristrutturazioni (nel nome della flessibilità naturalmente) per adattare al mercato sistemi di ricerca e sviluppo, produzione e organizzazione del lavoro.

Chi volesse approfondire il tema della flessibilità ne trova una descrizione laica e non ideologica sulla Enciclopedia Treccani online.

L’atro tema comune delle riflessioni dei tre autori sopra citati è quello degli effetti dell’economia neoliberista, delle rivoluzioni tecnologiche e della flessibilità a esse associata sulla vita delle persone. Berardi Bifo ne parla in termini di alienazione, disagio e malattia psichica, Sennet in termini di dimensione del tempo riferita al venire meno di attività lavorative a tempo indeterminato e al prevalere di rapporti di lavoro temporanei, limitati nel tempo e precari, Lyons in termini generazionali in quanto la flessibilità (precarietà) interessa in modo crescente fasce di persone sempre più giovani e discrimina in base all’appartenenza di genere e di razza. Questi effetti sono tanto più pesanti quanto maggiore è il rapporto ricattatorio basato sull’idea della flessibilità come opportunità e sul controllo, solitamente tecnologico, esercitato in modo sottile e pervasivo su chi lavora, sul come e in quanto tempo lo fa. La fotografia che ne emerge è quella di sistemi aziendali e istituzionali dal potere fortemente concentrato, dall’organizzazione distribuita e reticolare, da forme di potere basate sul controllo e sulla classificazione dei singoli individui con la finalità di organizzarli impedendo loro di sviluppare forme autonome di organizzazione e spazi autonomi di libertà (TAZ: zone temporaneamente libere perchè autonome).

Bifo, Sennet e Lyons, da prospettive e background culturali completamente diversi, mettono tutti in guardia dalla retorica prevalente che esalta la flessibilità. Suggeriscono di reinterpretarla, anche semioticamente e linguisticamente, in modo da comprenderne i reali significati, gli effetti e i modi con cui si potrebbe trasformarla.

Un mondo senza lavoro

L’articolo di Sennet su la Repubblica è un’anticipazione di un suo intervento che avrà luogo al Jobless Society Forum, un convegno milanese dal titolo “Futuro del lavoro e rivoluzione”. Un evento voluto dalla Fondazione Feltrinelli per riflettere sulla perdita, a partire dell’inizio della crisi nel 2008, di 60 milioni di posti di lavoro, della diminuzione della massa salariale valutata in 1200 miliardi di dollari e del ruolo crescente che la tecnologia (Il potere della tecnologia genera incertezza: suggerimenti tecno-pragmatici) ha nella distruzione di posti di lavoro, più veloce di quanto non ne stia creando (vedi il libro di Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee del Mit Center for Digital Business dal titolo La nuova rivoluzione delle macchine, edito in Italia da Feltrinelli). Un evento che focalizzerà la sua attenzione su alcune delle parole chiave usate oggi per descrivere e raccontare la nostra economia e la condizione di molte persone rimaste senza lavoro: neet, freelance, patto generazionale, sharing economy (Sharing economy e disoccupazione giovanile), nuovi luoghi produttivi, algoritmi e lavoro, politiche industriali, occupabilità, rappresentanza e cittadinanza sociale.

"Per trascendere il programma neoliberista, la Silicon Valley, sempre rapida nel mettere a frutto la controcultura,si è appropriata della pre-esistente retorica di beni comuni orientata al don, presentando startup come Uber e Airbnb come parte della cosiddetta sharing economy...le sraetup della sharing economy operano secondo un modello pre-welfare: i lavoratori godono du reti di rpotezione sociale minime, devono farsi carico di rischi che prima riguardavano i loro datori di lavoro, la contrattazione collettiva è quesi inesistenti."- Eugeny Morozov Silicon Valley: i signori del silicio)

Alcuni di questi temi come quello di sharing economy e degli algoritmi e tecnologie legate al lavoro meriterebbero trattazioni separate e maggiori approfondimenti tanto sono paradigmatiche della situazione di confusione linguistica e di manipolazione della realtà che media e centri di potere sono in grado di operare (cosa c’è di sharing nel lavoro precario e non pagato di migliaia di blogger, storyteller e aspiranti giornalisti in Rete? Cosa condividono Google o Facebook degli immensi guadagni generati dalla conoscenza dei profili, dei dati personali e dei comportamenti degli utenti online?).

A collegare tra loro le riflessioni di Sennet e quelle di Bifo c’è la visione condivisa della condizione in cui si trova la classe media e in particolare quella medio bassa. E’ una condizione che si manifesta come una paralisi dagli effetti cognitivi e psichici su persone, abituate a stare nel mezzo e a goderne i benefici (mai hanno dovuto lottare per i loro dirotto come hanno gli appartenente alla classe operaia), che oggi scoprono di non avere opportunità e di non potere trarre profitto dalle nuove tipologie di lavoro che la società tecnologica produce. Per loro l’offerta di lavoro si è ridotta, si è ridimensionato anche di più il loro reddito e vedono allontanarsi, nell’aura della flessibilità, la possibilità di ascesa sociale.

E’ una situazione che non porta allo scivolamento della classe media in quella più propriamente proletaria ma indica la nascita di una nuova classe di lavoratori, principalmente cognitivi, che hanno le stesse problematiche e vivono le stesse difficoltà di operai metalmeccanici che, a causa della flessibilità e dell’automazione tecnologica, sono passati dalla tuta blu al colletto bianco e al’iPad ma vedono a rischio il loro posto di lavoro a tempo indeterminato.

Due classi, ancora molto diverse, si ritrovano a condividere esperienze di lavoro e a competere per posti di lavoro tra loro simili, a resistere alla trappola del lavoro domestico (telelavoro fatto da casa) e a subire le stesse forme di repressione che si esprime attraverso l’uso diffuso della tecnologia (basti pensare ai call center per il customer service ma anche alle immobiliari che fanno uso di telefoniste casalinghe, sia italiane sia slovene o rumene) e l’imposizione di rapporti di lavoro di tipo precario.

L’effetto negativo che ne deriva non è solo legato all’assenza di lavoro e alla sua precarietà ma alla perdita di dignità e di considerazione di se stessi (autostima dell’uomo produttore) nel ruolo di membro di una comunità familiare, amicale, politica e sociale e di cittadino. Ciò è quanto affiora dalle centinaia di commenti al post su Linkedin di Dan Lyons nei quali si evidenzia l’ingiustizia e la disuguaglianza della flessibilità di cui si parla per il fatto che non garantisce a una persona che ha lavorato dieci anni nella stessa azienda di rimanerci solo perché ha raggiunto i 40 anni (anche meno ormai in molti casi e soprattutto se si è donne e incinte, extracomunitari o di razza diversa da quella bianca).

Con jobless society non si vuole indicare la “fine del lavoro”, ma il processo di profonda ridefinizione che coinvolge i luoghi, le forme, l’esperienza del lavoro in sé stesso e dei lavori e del ruolo dei lavoratori, oggi sempre più cognitivi e sempre meno lavoratori manuali.

Tutto ciò avviene in un contesto politico nel quale sembra non esistere più alcuna forma di contrapposizione reale al neoliberismo economico imperante ma soprattutto alcuna forma di responsabilità etica verso i lavoratori in difesa del lavoro e della dignità del lavoratore come risorsa di una nazione e di un’economia. Lo si è visto anche recentemente quando la responsabilità della messa in cassa integrazione di 350 dipendenti Eni in Basilicata è stata data, dal presidente del consiglio cinguettante, ai fautori del referendum NoTrivelle. Per Sennet la responsabilità dei politici al governo oggi nei paesi europei dovrebbe essere quella di proteggere i posti di lavoro ma anche di aiutarli a mantenere gli stessi stipendi, difendendo in questo modo la loro professionalità, la loro dignità e la loro utilità come risorsa per il paese.

Pur ribadendo più volte di non essere un tecnofobo, e sicuramente chi lo legge sa che non lo è, Sennet suggerisce una riflessione critica sul ruolo che la tecnologia e l’automazione stanno avendo nella sparizione di posti di lavoro. La riflessione è necessaria perché questa sostituzione non riguarda più solo i lavori manuali e di basso livello, la cui automazione è forse già arrivata a limiti insuperabili, almeno fino a quando non arriveranno robot dotati di corpi umanoidi e intelligenza artificiale, ma anche lavori intellettuali, tipici di lavoratori cognitivi (di concetto).

Le nuove tecnologie continuano a evolvere e con la loro automazione stanno oggi colonizzando la piccola borghesia e i posti di lavoro che l’hanno resa tale e diversa dalla classe operaia. Macchine tecnologiche intelligenti stanno sostituendo gli addetti agli sportelli bancari (a cosa serve un dipendente di sportello se tutte le operazioni possono ormai essere eseguite in autonomia interagendo con l’interfaccia visiva e tattile di un display?), i centralinisti (non è un caso che numerosi Call Center stiano vivendo momenti di grande ristrutturazione con la conseguente perdita di migliai di posti di lavoro), di addetti alla raccolta di ordini o alla gestione di tutte le operazioni contabili che possono essere automatizzate ed eseguite direttamente dall’utente online. La tecnologia con la sua volontà di potenza e capacità evolutiva sta intaccando categorie di lavoratori che si sono sentiti protetti da sempre come quelli che fanno funzionare le amministrazioni e le burocrazie della pubblica amministrazione locale e centrale. Ne deriva uno scivolamento verso il basso di classi che oggi sono diventate altamente vulnerabili perché vittime della rivoluzione digitale e della flessibilità ma soprattutto perché non dotate degli strumenti intellettuali e culturali utili a riflettere sulla realtà, economica, di mercato, sociale e anche personale.

Un mondo flessibile ma profondamente ingiusto

E’ il pensiero di Dan Lyons, autore del libro in uscita a maggio nelle librerie amicane dal titolo Disrupted: My Misadventure in the Start-Up Bubble  che in un post su Linkedin ne ha anticipato i temi suscitando una reazione, in termini di condivisioni e commenti, che lo hanno probabilmente sorpreso. Una reazione che invece personalmente non mi sorprende per nulla perché grande è la voglia di demistificare e condividere pensieri altri, diversi e che nascono da esperienze concrete e reali che i media al potere sembrano ormai volere certosinamente negare (quante delle recenti proteste di lavoratori manuali, cognitivi, precari sono riuscite a trovare la prima pagina di un giornale o ad avere servizi televisivi lunghi a sufficienza per far comprendere di cosa si stava parlando?). Leggendo i messaggi all’articolo di Lyons ciò che invece colpisce è quanto grande sia la preoccupazione, il disagio, la paranoia di lavoratori che operano in quella che continua a essere l’economia più potente della terra. Se il disagio è così grande negli Stati Uniti, patria delle principali multinazionali che controllano il mondo, quanto dovrebbe essere grande quello di lavoratori che operano in economie come quella italiana?

Le grandezze contano ma conta ancora di più la globalizzazione dell’economia e delle esperienze. Una indicazione chiara dello stadio avanzato del capitalismo attuale che ha imposto le sue regole ovunque sfruttandone al meglio tutti i meccanismi. Ad esempio quello della precarizzazione, come ritorno a forme di schiavitù, importata dal mercato cinese la cui manodopera è stata usata dalle grandi multinazionali per accumulare profitti inimmaginabili e per arricchire l’1% lasciando depresso e in povertà il rimanente 99%.

Tra gli effetti della flessibilità si manifestano anche fenomeni particolarmente odiosi e violenti come quelli legati alla discriminazione di genere e di razza ma ora, sempre di più, anche generazionale o legata all’età. Sempre più frequentemente persone che hanno superato i 50 anni (ormai il fenomeno interessa tutti, a partire dai 35/40 anni in su) e hanno un stipendio buono e elevato, frutto i una lunga carriera professionale, di talento e di  capacità, si vedono lasciati a casa o ricattati in modo da ottenere un lavoro da casa o uno stipendio più basso. Il fenomeno, racconta Lyons, è tanto più grave quanto più è applicato nella Silicon Valley, patria delle molte startup e aziende che sono all’avanguardia nella rivoluzione tecnologica attuale, una rivoluzione che si sviluppa promettendo a tutti benessere, flessibilità, opportunità e felicità.

Negli Stati Uniti e in particolare nelle aziende tecnologiche è in costante crescita il fenomeno della discriminazione in base all’età. Per essere assunti bisogna essere giovani e per essere licenziati basta non esserlo più. E’ un fenomeno che non ha corrispondenza in altri ambiti lavorativi (un avvocato o un medico in pensione a 50 anni?) ma le cui motivazioni illustrano molto bene gli effetti della rivoluzione tecnologica in atto. Persone di 40/50 anni sono considerate ormai incapaci di aggiornarsi e di apprendere le nuove tecnologie. Una spiegazione capziosa visto che non tutti i dipendenti sono di estrazione puramente tecnica e anche errata visto quanto si deve investire per avere lavoratori dotati di esperienza tale da essere considerati degli esperti. Il rischio di privarsi di talenti e professionalità solo per una questione anagrafica non sembra essere considerato tale da cambiare scelte manageriali e aziendali. Quello che sta succedendo nelle aziende tecnologiche, che spesso hanno fatto da esploratori e pionieri sul mercato e nell’economia, è destinato a diffondersi e a presentarsi in tutti i mercati e gli ambiti di lavoro. Con effetti a oggi difficilmente prevedibili visto il tipo di lavoratori che ne pagheranno le conseguenze.

IMG_5464.jpeg

Percezioni diffuse che non si organizzano in protesta o proposta

Mentre negli anni 60 e poi negli anni 70 le nuove generazioni trovarono il modo per interpretare la realtà e di provare a cambiarla, oggi la sensazione è che ognuno sia solo con i suoi problemi e disarmato nell’affrontarli. I giornali sono pieni di interviste, dichiarazioni, indagini che raccontano lo spaccato disperante di generazioni di giovani costretti a sopravvivere con un voucher e sotto il costante ricatto di perdere anche quello, ma poche sono le notizie che raccontano forme organizzate di resistenza, desistenza o lotta contro una realtà che non sembra destinata a procedere verso esiti positivi.

Negli anni 60 la spinta del movimento operaio e studentesco (operai e studenti uniti nella lotta come ricorda Bifo nel suo libro), manifestatasi incredibilmente in modo globale, nasceva dalla consapevolezza della fine di un’epoca e dell’inizio di un’altra, tutta da costruire. Il tentativo per cambiarla vide allora la saldatura tra il movimento operaio alla ricerca di migliori condizioni di lavoro, maggiori diritti e maggiore reddito con il movimento studentesco, composto in massima parte di figli di operai e contadini alla ricerca di nuove opportunità, di crescita personale e intellettuale ma anche diverse da quelle tipicamente manuali e operaie dei loro genitori. A sostegno delle loro rivendicazioni i due movimenti trovarono idee potenti (non solo Karl Marx, Freud o Max Weber) e cariche di visioni utopiche e una nutrita schiera di intellettuali (non solo la Scuola di Francoforte con Habermas, Adorno e Marcuse o Sartre) schierati a interpretare per loro e con loro i fatti della realtà (sociale e politica) con le nuove teorie e a elaborare concetti, analogie, riflessioni e visioni utili a dare forma al cambiamento. Le conseguenze di quanto emerse in quegli anni non furono tutte positive e anzi alcune furono decisamente assurde e negative ma quello che conta fu la parte che quella spinta al cambiamento ebbe nella società e nella vita di tante persone.

Oggi i tempi sono completamente mutati. Le ideologie sono date per morte o vengono spente in modo intelligente nei talk show, gli intellettuali (intesi al modo di Sartre) sono assenti o condividono l’unico pensiero che permette loro di trovare la visibilità dei media televisivi, la fiducia in un cambiamento politico è ridotta a zero dalla sfiducia massima nei confronti della classe politica di ogni tipo di partito (la facilità con cui Renzi ha preso il controllo di un partito di sinistra trasformandolo in qualcosa di completamente diverso ha allontanato dalla politica anche gli ultimi romantici…o illusi), la globalizzazione e la potenza delle oligarchie finanziarie sembrano impedire qualsiasi forma di resistenza locale e aspirazione al cambiamento (siamo il 99%) e infine la tecnologia con la sua pervasività ha di fatto reso fluido l’intero processo produttivo, automatizzando e digitalizzando processi e togliendo sempre più valore al lavoro che è diventato sempre più astratto come astratti, labili, destrutturati e altamente fluidi e dinamici sono diventati i rapporti di lavoro (è di questi giorni la notizia sulla proliferazione dei voucher e sul loro utilizzo per alimentare il lavoro nero).

Giovani in cerca di prima occupazione, cinquantenni lasciati a casa per raggiunti limiti di età o per riorganizzazioni mirate alla riduzione dei costi, lavoratrici penalizzate dal loro essere donna, neolaureati obbligati a stage infiniti e sottopagati, esodati ed esodandi, tutti sembrano vivere la loro condizione di disagio e sofferenza (alienazione) individualmente come singoli elementi di un sistema immodificabile e da accettare così com’è. La conseguenza è l’emergere di un’infinità di nuove forme di servitù e di catene che impediscono non solo di vivere liberamente ma anche di condividere con altri la propria condizione e, nel farlo, di elaborare strumenti cognitivi e di fare scelte finalizzate  a cambiare la realtà. La mancata condivisione avviene in un contesto reso sociale dai nuovi media e dalla tecnologia.

Tutti sono su Facebook ma, come hanno dimostrato anche le primavere arabe, esserlo non aiuta a vincere una rivoluzione o a stabilire contatti e condivisioni utili alla soluzione dei propri problemi, in particolare quelli lavorativi. Inoltre abitare gli spazi sociali della Rete espone tutti alla costante tracciabilità e influenzabilità. Le cattive abitudini personali e soprattutto le idee divergenti e anarchiche possono essere riconosciute, analizzate e corrette in tempo reale in modo da vanificarne l’effetto e la valenza all’interno di contesti e di reti sociali e di comunità di interesse o di conoscenza come sono spesso i gruppi di Facebook o Google Plus. Le comunità e i gruppi dei social network non sono spazi liberi ma delimitati da fili spinati e muri che gli stessi membri contribuiscono a creare e a manutenere. Spesso volutamente perché protetti dentro una rete di contatti o di una comunità ci si sente bene e in comunione con altre persone che condividono gli stessi problemi e la stessa visione della realtà.

La percezione diffusa di essere parte di un unico grande organismo complesso che si auto-organizza in tempi e modi imprevedibili rende inutili contrapposizioni e progetti politici forti. Meglio dotarsi di nuovi strumenti intellettivi e di conoscenza per osservare la realtà e scoprire quali siano le realtà emergenti e di verificare, come scrive Berardi Bifo, “l’esistenza di una divergenza singolare che prolifera, che si incontra con altre divergenze, procedendo in modo virale e contagiando per forza di informazione”. E’ quanto sta succedendo con i vari movimenti sorti in questi ultimi anni a partire dal Movimento 5 Stelle italiano, a Occupy Wall Street negli Usa che oggi è protagonista assoluto della campagna per le primari di Bernie Sanders, di Siriza in Grecia, di Podemos in Spagna e in questi giorni di Nuit Debout in Francia. Sono tutti movimenti forti, cresciuti rapidamente (effetto virale della Rete?) ma che non hanno ancora saputo dimostrare di avere la forza di cambiare la realtà.  Eppure, come direbbe Bifo, sembrano disporre di ciò che serve per farlo, in quanto si basano sulla condivisione di un interesse comune (esperienze di lavoro e precarietà, dimensione individuale e personale di disagio), di una potenza comune (la percezione di avere la forza sufficiente per affermare i propri interessi) e una narrazione comune (condivisione di un comune orizzonte immaginativo e la capacità di dare forma a nuove mitologie, descrizioni del presente e visioni del futuro).

La realtà mutata del lavoro

L’ultimo sciopero dei metalmeccanici (1,6 milioni di persone in Italia) non ha catturato l’attenzione dei media ma ha fornito ulteriori spunti di analisi a sociologi e studiosi interessati al mondo del lavoro e alle sue trasformazioni attuali. Dismesse le tute blu, anche gli operai metalmeccanici sono l’emblema di quanto la tecnologia abbia cambiato il mondo della fabbrica e del lavoro. Più che il casco, gli operai metalmeccanici odierni sono dotati di tablet e dispositivi tecnologici indossabili con i quali governano robot e macchine intelligenti che fanno il lavoro pesante un tempo toccato a loro. Politicamente hanno abbandonato le ideologie per adottare pensieri e comportamenti politici più pragmatici (non è un caso che molti parteggino per il Movimento 5 stelle) e più consoni all’essere diventati anche loro lavoratori cognitivi. Nella nuova veste e traendo vantaggio dal loro forte senso di appartenenza sociale, puntano a salari più alti ma anche a dire la loro su investimenti, produttività e innovazione. Devono però fare i conti con un ambiente di lavoro sempre più semplificato dall’automazione e dalla crescente interscambiabilità di ruoli e di competenze che riduce la loro forza contrattuale e prospettive future.

L’automazione tecnologica è stata una delle risposte con cui il capitalismo ha reagito alle richieste organizzate nate durante gli anni 60/70. Oggi l’automazione è stata quasi completata e può contare su nuove tecnologie che lasciano prevedere un futuro ancora più tecnologizzato nel quale lavorare sarà sempre di più interagire con il display di un dispositivo o l’interfaccia di qualche macchina intelligente. Il lavoro manuale è svolto da macchine mentre quello intellettuale e mentale diventa principalmente un’attività di tipo specialistico (tutti davanti a uno schermo) ma con specializzazioni diverse e irriducibili le une alle altre, di comunicazione, di tipo artistico e creativo. Diventati tutti lavoratori cognitivi autonomi e liberi professionisti, tutti ci si sente impresa e impegnati a fare del lavoro (imprenditori di se stessi) il perno della propria esistenza, condividendo così a livello psichico e cognitivo i valori che guidano l’economia senza per questo condividerne i benefici.

Il lavoro diventato baricentro di vita e vissuto come risposta a un desiderio nella realtà si è trasformato in un bisogno impellente finalizzato non tanto alla ricchezza quanto alla sopravvivenza. Ne deriva una condizione di precarietà e infelicità che porta ad accettare qualsiasi tipo di scambio (“mi hanno promesso tre voucher ma me ne pagano solo due, e se mi lamento perdo il lavoro” ha dichiarato un giovane lavoratore cognitivo a un giornalista di la Repubblica). Sotto ricatto, in continua mancanza di tempo e trasformati in isole atomiche di lavoro produttivo all’interno di filiere o reti collaborative di cui non si conosce il centro, si finisce per pensare di essere attore e protagonista (imprenditore-lavoratore) della propria vita senza rendersi conto di essere all’interno di una grande illusione e finzione pura. Gli effetti sono molteplici: viene meno la carica solidaristica che in passato legava i lavoratori tra di loro, ci si identifica sempre più nella Rete accettandone i flussi, i principi e la dipendenza, cresce l’emarginazione e la difficoltà a condividere con altri esperienze, riflessioni e idee e ad organizzarle in azioni, si perde la capacità di comunicare perché si comunica sempre di più per guadagnare, si mettono in crisi relazioni e rapporti amicali e familiari e si rischiano nuove forme di patologie e alienazioni di tipo psichico e mentale.

 

In tutto questo un ruolo importante lo sta giocando un gadget tecnologico come lo smartphone. Un dispositivo giocattolo, diventato per molti strumento efficace di personal computing ma anche lo strumento attraverso il quale passa oggi la dipendenza individuale nei confronti dei lavoratori, in particolare di quelli cognitivi. Uno smartphone sempre accesso prolunga infatti i tempi di lavoro facendo diventare labile la distinzione tra tempo libero e tempo lavorativo (scrive Bifo che “il lavoro è attività cellularizzata su cui la Rete opera una incessante ricombinazione” - Vedi anche il mio articolo Lo smartphone è misura di tutte le cose). All’immobilità del lavoratore manuale della catena di montaggio si è sostituita la mobilità senza tempo e senza spazio del lavoratore cognitivo che per essere sempre raggiungibile può sempre essere richiamato a svolgere funzioni produttive. Funzioni e attività non necessariamente pagate, non sufficienti a sostenere nuove rivendicazioni, vissute in leggerezza ma che devono poi fare i conti con il prezzo economico, psichico, emozionale e esistenziale che ne deriva.

Ognuno con la sua Arca di Noè

Per descrivere i protagonisti cognitivi dell’era digitale Berardi Bifo usa una similitudine biblica molto interessante. Mentre psicologi e psicoterapeuti paragonano spesso i profili dei social network alle monadi Leibniziane (sostanze puntiformi e centri di forza con molta attività interna ma poco influenzabili da fattori esterni), Bifo paragona la Rete ad un diluvio di tipo digitale nel quale ognuno costruisce la sua Arca, ci mette gli esseri che ha deciso di salvare e organizza la sua fuga dal mondo reale, invaso dalle acque e da altre brutture che si è deciso a lasciarsi alle spalle.

Nell’Arca digitale personale ci si può illudere di essere felici e di sopravvivere, anche grazie ai collegamenti con le altre arche che solcano le acque, ma il diluvio dura a lungo e obbliga a un consumo di energie psichiche e nervose così elevato da dover ricorrere, per alimentarle, a sostanze dopanti come il Prozac o simili o a continui interventi di auto-apprendimento o corsi di programmazione neuro-linguistica. Il tutto per evitare situazioni di panico e crisi depressive.

L’Arca è una via di fuga dal reale, dal diluvio ma non dall’infelicità, e non è la soluzione. Assomiglia alla navicella del protagonista di Matrix che lotta con successo contro i ragni tecnologici per finire la corsa all’interno della setta para-religiosa dei ribelli che si oppongono al potere del Matrix promettendo una felicità essa stessa irrealizzabile. L’Arca con cui si naviga il diluvio digitale è pura illusione ma non è separata dalla realtà. Illusione e realtà sono oggi strettamente legate e si influenzano a vicenda, abbandonare l’una significa perdere anche la seconda. Ciò che conta, come ha suggerito il filosofo Salvoj Zizek in un suo articolo sul film Matrix, non è scegliere tra la pillola rossa (la verità) e quella blu (la felicità illusoria:”So che questa bistecca è virtuale ma non me ne preoccupo perché sembra reale!”) ma disporre di una terza pillola. Una pillola che non deve essere destinata a fornire facili e insoddisfacenti soluzioni ideologiche o trascendentali ma a comprendere le molte realtà che caratterizzano le illusioni nelle quali viviamo o siamo intrappolati.

IMG_2340.jpg

Il reale sembra scomparso ma lascia tracce di futuro

Venuta meno la spinta solidaristica che ha caratterizzato gli anni 60/70 le generazioni della crisi sembrano tendere a soluzioni individuali, non necessariamente politiche e condivise all’interno di comunità (reti) e gruppi (classi) sociali. La difficoltà della vita reale favorisce vie di fuga nel mondo tecnologico e digitale ma impedisce di trovare risposte concrete e soluzioni ai bisogni emergenti. La velocità, i ritmi imposti dalle nuove tecnologie e il loro ruolo nel mondo del lavoro generano situazioni di reale sofferenza, di umiliazione e disperazione e soprattutto di perdita di ogni speranza sul futuro.

Chiusi nei propri profili digitali o nelle numerose Arche con cui solcano le acque del diluvio digitale della vita reale, fanno fatica a comprendere che la condizione attuale non è stata deterministicamente predeterminata e costruita ma è il frutto di rapporti di forza tra entità, elementi, visioni, ideologie, persone. Oggi la percezione generalizzata è di trovarsi in una situazione immodificabile, modellata sui principi e le regole dell’economia, sui suoi automatismi finanziari con evidenti ricadute economiche, sociali e politiche. La situazione è al contrario altamente fluida e a rischio implosione/esplosione. Per sopravvivere il sistema attuale ha bisogno della massima compatibilità e usa la tecnologia per crearla, soprattutto a livello cognitivo. E’ un’operazione lenta ma persistente e martellante che ha portato alla situazione attuale, nella quale individui precari, infelici e senza futuro, credono di vivere liberamente perché posseggono un iPhone e navigano felicemente la Rete chattando, postando e cinguettando. Non sono obbligati a farlo ma lo fanno, anche per molte ore al giorno. In questo modo si offrono al controllo sociale tecnologico, si sottomettono agli automatismi della Rete usandoli, introiettano obblighi, codici etici e comportamenti e finendo per cedere ad altri “la loro anima” (“nella fabbrica immateriale ci viene chiesto di mettere a disposizione la nostra anima: intelligenza, sensibilità, creatività, linguaggio.” – Berardi Bifo).

Così come la cessione del corpo degli schiavi ai proprietari delle piantagioni di cotone degli stati del Sud degli Stati Uniti e quello delle operaie delle fabbriche tessili della Rivoluzione Industriale non è stata per sempre, oggi la cessione dell’anima che sembra caratterizzare i lavoratori cognitivi non è necessariamente destinata a durare.

Il livello di precarietà, di disagio psichico e sociale e di sofferenza è in cotante aumento, e agisce come una forza potente di destabilizzazione che porterà a nuove forme di organizzazione del sistema. I tempi possono essere lunghi ma sembrano già oggi irreversibili. Lo sembrano tanto più quanto più violenta è l’azione di chi governa contro ogni forma di resistenza, di pensiero divergente e di richiesta di maggiore libertà e felicità. I cambiamenti che si stanno manifestando sembrano essere diversi, nel prendere forma, da eventi simili del passato. Manca la visione storica ma cresce la consapevolezza di essere semplici ingranaggi di una macchina complessa in cerca di una nuova fase di evoluzione alla quale si può contribuire con i propri flussi percettivi, psichici, immaginari e tecnologici. Più che rincorrere sogni millenaristici e utopistici costruiti su disegni unitari e ideologie destinate potenzialmente a produrre mostri, si preferisce cavalcare l’attimo sfruttando ed elaborando al meglio l’informazione disponibile e lasciandosi guidare dall’intuito e dalla casualità ma anche dalle abitudini e dai comportamenti inscritti nel DNA di ognuno.

Sentendosi parte integrante di uno sciame (metafora potente delle reti tecnologiche attuali) governato da automatismi e regole sue proprie e del quale nessuno ha il potere di determinarne la direzione o la forma, il rischio è di decidere di non fare nulla. Un atteggiamento che sembra essere prevalente tra molti giovani delle generazioni dei Nativi Digitali e Millennial e che al momento sta producendo tanta felicità virtuale e altrettanta infelicità reale. L’unione di biotecnologie e tecnologie dell’informazione lascia oggi intravedere una nuova evoluzione verso una realtà nella quale corpi e menti potrebbero essere non solo cablati e controllati ma anche plasmati, ibridati e connessi a robot e macchine intelligenti. La destinazione di questa nuova evoluzione, così come quella dell’economia corrente, non è predefinita e deve far costantemente i conti con la mente umana, la sua conoscenza e consapevolezza da cui possono derivare scelte e decisioni.

Allo sciame biologico-tecnologico, frutto di forze che hanno preso momentaneamente il sopravvento con l’obiettivo di garantirsi il controllo sociale ed economico, si potrebbe sostituire uno sciame buono, solidaristico e geneticamente modificato con finalità diverse. E’ uno sciame assimilabile a quello (Progetto 40) descritto da Frank Herbert nel suo romanzo L’alveare di Hellstrom (edito nel 1973 da Editrice Nord e oggi esaurito) che prevedeva la costruzione nel sottosuolo di un alveare finalizzato alla creazione di nuovi tipi di esseri umani più simili a insetti (destinati a dominare per la loro adattabilità, così come domani potrebbero fare le macchine intelligenti). L’alveare ha richiesto anni di selezione genetica, la costruzione di una società autosufficiente e fondata sul collettivo e diversa da quella esterna, dominata da una democrazie fittizia e sempre più controllata.

Mentre gli esterni sono impregnati dall’individualismo l’alveare sotterraneo è solidale e se ne sta nascosto per evitare condizionamenti e contaminazioni. Obiettivo finale di Hellstrom è di usare il suo alveare e le sue sciamature successive per ripopolare la terra di nuovi sciami prendendone nuovamente il possesso e coinvolgendo anche gli esterni nella loro liberazione. Anche l’alveare di Hellstrom è pieno di contraddizioni e limitato da problematiche simili a quelle dello sciame esterno ma permette di progettare e pensare un futuro diverso.

Un futuro non necessariamente governato dalle leggi economiche del mercato e della finanza, non forzatamente costruito sui rapporti di lavoro attuali ma su un nuovo modo di guardare al tempo del lavoro liberando risorse per la vita personale e sociale, non condizionato dalla limitatezza del reddito e dalla difficoltà nel produrlo e costruito su basi culturali diverse nelle quali il PIL ha meno importanza del grado di benessere e di felicità delle persone e ci si possa liberare delle paranoie e zone di sofferenza attuali.

Non sarà un progetto facile da realizzare (I tempi sono folli e ci aspetta nuovo caos) e soprattutto non avrà mai fine!

 

Bibliografia

 

 

comments powered by Disqus

Sei alla ricerca di uno sviluppatore?

Cerca nel nostro database